“Quell’osso di babbuino lanciato nell’universo”

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A volte il cinema propone scene che colpiscono nel profondo l’immaginario collettivo e lo plasmano, per cui ogni richiamo risulta immediatamente intelligibile: questo vale ad esempio per la sequenza di “2001-Odisea nella spazio” in cui un monolite nero compare a un gruppo di scimmioni e ne avvia l’evoluzione in esseri umani. La scena viene replicata giocosamente all’inizio del film “Barbie”, quando una super-bambola appare alle bambine e indica loro una maniera tutta nuova di giocare e di crescere. In “2001” un osso, usato per la prima volta come mazza da uno scimmione e lanciato in aria dallo stesso scimmione, riassume nella sua traiettoria di volo l’evoluzione umana e si trasforma in una nave spaziale. Ma il fatto sorprendente è che la paleontologia ci rivela che qualcosa di simile è successo davvero: un perone di babbuino, su cui un essere umano di 43 mila anni fa ha inciso 29 tacche, una per ogni giorno delle fasi lunari, è la prima testimonianza di osservazione astronomica a noi nota; da quell’osso sono partite l’esplorazione dei cieli e l’indagine delle leggi che li regolano, facendoci via via scoprire la natura del sistema solare, delle galassie, dell’Universo e (ultima frontiera, ancora in forse) degli Universi multipli. In senso figurato, quell’osso con 29 tacche lanciato in cielo si è trasformato in un telescopio orbitale.

Luigi Grassia, Quell’osso di babbuino lanciato nell’Universo. Una storia per aneddoti di come abbiamo scoperto il Cosmo, Mimesis Edizioni, 158 pagine, 15 euro.

Però c’è un dettaglio non da poco: mentre “2001” associava la prima scintilla della mente umana al sesso maschile e all’uso delle ossa come armi, è probabile che a quel perone scheggiato abbia invece lavorato una mano femminile; secondo i paleontologi quell’osso avrebbe conteggiato non solo i 29 giorni delle fasi lunari, ma anche quelli che misurano, in media, il mestruo, una cosa di interesse più femminile che maschile; e ce lo suggerisce il fatto che tutt’ora nell’Africa del Sud, dove l’osso di babbuino è stato rinvenuto, i Boscimani continuano ancora oggi, 43 mila anni dopo, a incidere pezzi di osso o di legno con tacche per contare i giorni delle fasi lunari e del mestruo, a volte dipingendoli di ocra color del sangue, per sottolinearne il significato.

È con questo racconto della prima osservazione astronomica di 43 mila anni fa, compiuta probabilmente da una donna, che comincia il libro Quell’osso di babbuino lanciato nell’Universo. Una storia per aneddoti di come abbiamo scoperto il Cosmo, appena pubblicato da Mimesis Edizioni e scritto da Luigi Grassia, giornalista de La Stampa, che ha qui condensato i risultati di anni di interviste a scienziati, i più noti dei rispettivi settori a livello internazionale (dalla paleontologia all’astronomia) per La Stampa e per varie riviste – e alcune ne ha fatte appositamente per questo volume.

Il libro usa come filo conduttore l’evoluzione dell’astronomia dalla preistoria fino a oggi (anzi, fino a domani e a dopodomani, perché esplora anche le prospettive futuribili, non ancora dimostrate) ma ha un tratto distintivo rispetto alle storie divulgative di astronomia già disponibili sul mercato, perché esplora anche le basi filosofiche delle scoperte, e prima ancora le loro fondamenta cognitive, in parole povere la maniera in cui il nostro cervello è diventato capace di prestazioni scientifiche che sono invece negate alle scimmie; e questo è rilevante per l’astronomia perché, come ha detto il Premio Einstein Tullio Regge, “l’essere umano è un prodotto dell’evoluzione darwiniana. La sua struttura mentale e le sue categorie logiche sono state influenzate dalla lotta per la sopravvivenza nella natura in cui si è evoluto nella savana africana. Conosciamo intuitivamente quelle leggi naturali e quelle regole matematiche che ci permettono di sopravvivere. Questa impostazione di fondo ci impone una visione sostanzialmente antropomorfa del mondo che ci circonda”. Il rapporto fra evoluzione biologica e lo sviluppo della scienza fisica e dell’esplorazione astronomica è strettissimo.

Keplero

Quell’osso di babbuino ha anche un’altra particolarità: fa conoscere al pubblico personaggi non famosi, come Ecateo di Mileto, il primo esploratore/giornalista della storia, che anticipò Erodoto ed ebbe l’idea di verificare i miti greci, in particolare l’esistenza della porta degli Inferi a Capo Tenaro, prendendo l’inusitata iniziativa di scrivere un reportage: “Adesso vado a vedere!”. Oppure Domenico Novara, l’astronomo e filosofo neoplatonico che aprì gli occhi al giovane Copernico, rivelandogli la teoria eliocentrica di Aristarco di Samo e cambiando la sua prospettiva sul Sole. O ancora, il libro ci parla di come Keplero (lo rivela lui stesso, ma il fatto è misconosciuto) scoprì le orbite ellittiche, anziché circolari, dei pianeti, non grazie a qualche geniale intuizione in stile Archimede Pitagorico (il personaggio dei fumetti) ma a seguito di un errore di cui faticò a rendersi conto; e nel volume si racconta pure di come lo stesso Keplero – altro fatto poco noto – abbandonò per cinque anni lo studio degli astri per laurearsi in giurisprudenza e seguire in tribunale un solo caso, quello di sua madre accusata di stregoneria (e riuscì a farla assolvere). Ecco, raccontata così la storia dell’astronomia, e della scienza in generale, potrebbe essere più completa – e anche più intrigante.

Donatella Luccarini